Testi critici

Ho visto i quadri di Panseca 2 anni fa; ne ho rivisti a distanza di tempo. Mi è piaciuto tenerlo d’occhio, arrivando all’improvviso nel suo studio e sempre ho visto un progresso nel suo operare. Panseca ha un ardimento fantasioso nell’immaginare i suoi vortici di luce; i quadri ne sono come allagati, la luce invade lo spazio, si coagula all’improvviso attorno a nuclei vorticosi c’è un’idea e una suggestione dei grandi spazi stellari.

Neo-figurazione, ma non intesa nel senso di “qualche riconoscimento di retours restaurativi di forme in se stesse catalogate in modo irrevocabile ed irreversibile” bensì come reperimento figurale che emerge dal filtro delle percezioni, intravisto e lasciato intuire. Ora Filippo Panseca è dentro questa ultima ipotesi, vi è arrivato – coerente con il proprio temperamento per gradi di istinto, con totalità di impegno. Dai piani, dai ritmi, dai volumi grigi o variamente sfumati di nero (limite masssimo di essenzialità cromatica) che animano e vivificano gli spazi delle sue tele, nasce la neofigurazione di Panseca. E’ iconologia, nè potrebbe essere diversamente; le immagini palpitano accennate, diventano parte dello spazio; respirano e fondono lo spazio senza rivelarsi tuttavia oniriche e improbabili. Nudi femminili, donne appena create che indugiano nell’alto cielo prima di iniziare il loro itinerario verso la terra, come sorprese in momenti di dissolvenze sensuali, figure roteanti intorno ad una superiore presenza, come nella Crocefissione del grande quadro. Una poesia, cioè, compiuta e commossa, che allontana ogni sospetto o diffidenza. In questi termini Panseca propone la propria contemporaneità, in questi termini di passione e di istinto. E se è vero – come sostiene Jean Lescure – che ogni pittore è veramente tale “quando si trova all’origine del movimento che lo fa pittore” Filippo Panseca lo è con assoluta certezza.

È o non è questa l’era della plastica e dell’acciaio, non che della cibernetica? E allora a farsi giudice di opere estetiche volute in questi materiali dell’epoca nostra sia un cibernetico! Così mi chiede Filippo Panseca, giunto da poco a Milano dalla sua Palermo, tanto più che nelle sue opere cominciano a comparire anche i motori quali componenti di strutture dinamiche. Soltanto, io non sono un critico d’arte; e posso intervenire piuttosto come uomo che al massimo è di gusto e di pensiero, per la capacità che avverto in quelle opere di lasciarmi prendere con l’equilibrio della risposta estetica, e per le considerazioni che esse mi sollecitano.Le pure linee della struttura dell’oggetto sono avvalorate dalla materia, trasparente nella plastica, riflettente nell’acciaio, fredda la prima, mobilissima, quasi liquida per lo spettatore la seconda. Le semplici simmetrie per esempio delle sue grandi sfere, “le strutture pensili” mi suggeriscono subito il giudizio estetico è positivo; cioè esse sono ornamento, sono ordine, sono cosmo, potrebbero figurare nello studio come nella casa, sospese o sul tavolo a testimoniare fra l’altro che i due concorrenti, quelli che si contendono in tan campi il mercato, la plastica e l’acciaio, si sono felicemente sposati.“Tecnica dell’immagine o immagine della tecnica?”. Entrambe le asserzioni che a proposito di queste opere sono state adoperate, mi sembrano di troppo.Per un artista, c’è il pericolo di montarsi la testa e di sbagliare il bersaglio; meglio limitarsi  al rapporto che  l’opera ha con i materiali nudi che le danno corpo, cioè al rapporto fra ciò  che l’artista assume di già fatto e ciò che vi aggiunge con la sua opera; non che le sottili interferenze dovuti per esempio alla presenza degli stessi materiali fra queste opere ed altri oggetti per uso non esteco, interferenze avvertite sia dall’artista che dal fruitore, Anche perchè su questo punto si apre un capitolo indubbio di interesse per il sociologo dell’arte. E escluso che l’estetica sia tua da una parte, e dall’altra l’economia e la pratica; non già perchè ogni nostro atteggiamento non sia riconducibile ad almeno una operazione soltanto sua, che ne assicura l’originalità, ma perchè l’uomo si trova ad alternarli nella sua giornata, e nei suoi stessi prodotti spesso li compone, dosandoli magari a seconda degli scopi che sono di frequente compositi. Ed ecco le arti cosiddette minori, applicate, industriali, nell’edificio nelle suppelletili, negli strumenti, ecc. “Serve ed è bello”, “è bello e serve”; fosse sempre così!Filippo Panseca ora ha davanti a sè questa strada; forse è davvero un arsta con l’animo prezioso di un artigiano. Particolare curioso: i suoi motorini elettrici nascono a migliaia destinati ai girarrosti. Panseca ne distrae qualcuno anchè volgano e rivolgano una struttura , la nostra figura riflessa, un raggio di luce filtrato o colorato. E’ il destino deviato dell’inarrestabile gioco delle parti.

Panseca, di origine siciliana, ha una fantasia lucida, che  lo fa volgere a severe ricerche di “design” e più ancora, alla invenzione espressiva di oggetti – da moltiplicare in serie – dove l’analisi, condotta con apparente freddezza ai limiti di processi scientifici (e ne danno prova, i nidi disegni preparatori), si accende nei risulta di stupore poetico, di estrosità imprevedibili, di ironie divertite, di penetrazioni concettuali. Sembra che Panseca sia spinto, alle origini, da un demone sostanzialmente barocco, della poetica che susciti sempre meraviglia. Ciò non esclude, come dicevo, una severità di metodologia addiritura programmata: ma alla fine l’estro, la sorpresa, sono in funzione di un continuo stupore, che è poi il suo stesso stupore, omista, nei confronti del reale. Ecco dunque il provvisorio di apparizioni luminose, la sfera che conserva le irradiazioni solari e si illumina improvvisa, le piccole luci che si accendono e si spengono come lucciole moltiplicandosi in rami, in alberi, i cerchi invisibile nel chiaro e visibili in modo magico al buio, le luci in vibrazioni cosmiche, gli equilibri sospesi dei movimenti luminosi, pendolari, le gocce di luna o di astri si staccano in luce e cadono con cadenze ritmiche il divenire del tempo esistenziale in continue trovate di meraviglia.Il rigore più distaccato mentalmente finsce con l’accendersi di un vitalismo intenso come gioia di vivere, e quindi come continua, fantastica sperimentazione: è l’accento singolare di questo artista,che si distingue con la sua personalità, carica di umana simpatia, nel panorama artistico del nostro tempo.

IL PRESENTE PERMANENTE DELL’IMMAGINE

La ricerca tecnologica costituisce da sempre l’asse portante del modo di procedere di Filippo Panseca: il parametro al contempo lucido e poetico della sua filosofia del progetto creatore.

Già nel 1965, dà vita, a Palermo, al Gruppo Sperimentale Temposud, e porta avanti le sue ricerche nel campo dell’elettronica nel corso di numerosi viaggi negli Stati Uniti tra il 1966 e il 1971. Nel 1968, fonda a Roma e a Milano lo studio DiPPi, e partecipa, col gruppo Mid, alla XIV Triennale di Milano. Nel 1970, realizza “Lili”, che io stesso presento alla galleria Apollinaire di Milano: un modulo componibile all’infinito, a duplice accensione intermittente, e di una durata di vita di tre anni.

Si susseguiranno, di lì a poi, una lunga serie di sfere e di progetti caratterizzati da un’autonomia interna di comportamento. “Sola”, “Light”, “Time”, “Moon”, “Doball”, per la Galleria del Naviglio di Milano realizza un pendolo elettronico a luce stroboscopica.

Un particolare interesse per la reazione chimica di alcuni colori con la luce lo porta ad eseguire i suoi primi quadri “monocromi simpatici”, destinati a scomparire col tempo. Nel 1973, in seguito ad un ulteriore viaggio negli Stati Uniti, approfondisce la sua esperienza nel campo dei materiali plastici bio e fotodegradabili per progettare poi opere urbane, di rapida decomposizione, non inquinanti per l’ambiente. Dal 1975 al 1985, porterà a termine centinaia di monumenti urbani non degradabili, da sostituire ai “landmarks” esistenti.

Sempre all’avanguardia, scopre la dimensione operativa più spettacolare della nuova tecnologia: la diffusione multipla illimitata. Egli sperimenta la possibilità di trasmettere opere d’arte via satellite, simultaneamente e in tempo reale nelle gallerie delle più grandi città del mondo. Abbiamo fatto insieme varie realizzazioni a Milano, presso la Ranx Xerox, nel 1975.

Panseca spingerà molto avanti l’idea di una produzione multipla di massa. Il 17 e 18 gennaio 1976, il quotidiano “La Repubblica” esce in tutte le edicole accompagnato da un’opera originale dell’artista, con una tiratura di 330.000 esemplari, venduta insieme al giornale e al suo stesso prezzo, vale a dire 150 lire. Nell’ottobre dello stesso anno è la volta del mensile “Prova Radicale” (50.000 esemplari, 700 lire) e il primo gennaio 1977, del settimanale “ABC” (250.000 copie, 350 lire).

Durante tutti gli anni ottanta continuerà le sue esperienze “fotodegradabili” alla Biennale di Venezia e, soprattutto, alla Triennale di Milano. Il più celebre esempio di “assenza nella presenza” è costituito dalla “Vittoria Effimera”, degradabile nell’arco di trenta giorni, che egli colloca sulla mano tesa del Napoleone di Canova nel cortile dell’Accademia di Brera.

Attraverso questa ricca biografia ci è facile cogliere la dimensione eccezionale di Panseca nel panorama contemporaneo dell’arte italiana, la grandezza della sua fantasia immaginativa, e la sua forza premonitrice nel campo della manipolazione tecnologica.

La guerra del Golfo lo incolla, come tutti noi, davanti alla televisione. L’esperienza lo porterà a pubblicare due album di fotogrammi stampati al computer; un vero capolavoro del giornalismo d’arte, un importantissimo momento per la computer painting.

L’atelier di Panseca è diventato la più futurista delle sale macchine contemporanee. Qui è stato elaborato il sistema computerizzato “Swart”, neologismo derivante dalla fusione delle parole “swatch” e “art”: il riferimento all’orologio-gadget svizzero si commenta da solo.

Dall’inquadratura fotografica alla elaborazione grafica, alla stampa, tutto è computerizzato. Il sistema permette la diffusione immediata dell’opera in qualsiasi parte del mondo. Rende inoltre possibile la realizzazione di un distributore automatico di opere d’arte, grazie all’utilizzazione combinata delle telecamere e della computer graphic. Panseca predilige in modo particolare ritratti, autoritratti, effigi di biglietti di banca, allegorie di uomini politici e di star. Questo eclettico personaggio, è pittore, designer, fotografo, regista, cineasta. Ma le sue molteplici attività non hanno soffocato in lui la forza dell’emozione, la potenza dello stupore. Il suo modo di concepire l’arte deriva direttamente dal suo amore per la vita, immagine e sostanza della comunicazione. Il circuito di produzione e di diffusione immediata e illimitata di Filippo Panseca è un po’ come l’uovo di Colombo. Bisognava pensarci. Ma chi aveva il diritto morale di pensarci per primo, se non lui, l’eterno mago dell’elettronica, il Peter Pan del 2000 che sogna di ricoprire il pianeta di una pioggia di immagini teleprodotte e telecomandate. E’ già da molto tempo, e io sono il primo a testimoniarlo, che Filippo vive nel 2000. Non parlategli quindi di angoscia da fine millennio, di duplice bilancio di secolo e di millennio.

Panseca si è stabilito una volta per tutte nel presente permanente della sua creazione. Si sente perfettamente a suo agio in questa società post-industriale, così ricca di immagini vitali, che egli è in grado di captare, fissare e spargere ai quattro venti. Provate, se ne avete la possibilità, a vivere al ritmo di Panseca e delle sue immagini: sentirete il grande brivido del suo umanesimo, il pensiero di fondo che anima la nostra condizione post-moderna, e che ci fa vivere il presente come un bellissimo sogno ad occhi aperti.

DNA, DIGITAL NEW ART LA PIU’ POTENTE IGIENE DELLA VISIONE

Filippo Panseca è il maestro del riciclaggio planetario della comunicazione. Le sue immagini, che egli prende in prestito dalla più scottante attualità dei media, trattano le molteplici sfaccettature dell’incessante metamorfosi del nostro vivere quotidiano ed arrivano ad appagare le profonde pulsioni della nostra attività. I suoi fotogrammi, digitalizzati, elaborati attraverso computer e plotters di grandi dimensioni, divengono le icone istantanee della miriade di momenti successivi che costituiscono il flusso continuo dell’informazione telematica. Il loro ambiente naturale è quello del sito web, ove con facilità assumono l’impietosa oggettività del reportage in diretta, ma senza complessi, lo abbandonano per andare ad occupare lo spazio più sofisticato delle migliori gallerie, nelle quali risaltano con il lusso raffinato dei dipinti rinascimentali. Il loro impatto visivo è lo stesso dell’energia che oggi ha la vita, animata dal parossistico respiro della cultura globale. Le immagini di Panseca sono belle come l’amore e potenti come il destino. Da dove traggono la loro dimensione di inesorabile autenticità? Dall’intrinseca verità della loro componente di base. Ogni pixel contiene in se la totalità dell’immagine d’insieme. Eterno giocoliere dell’istinto, adesso Filippo Panseca ci confida in diretta e a tiratura illimitata il segreto del DNA dell’informazione telematica. La sua arte si presenta come il perfetto vettore umanista della comunicazione. Nell’era dell’elettronica universale la sua estetica si impone come la più potente igiene della visione.

PENSARE PANSECA: ALLE RADICI DELLO SPAZIO-TEMPO TECNOLOGICO

Pensare Panseca – o, ancora di più, ripensare Panseca. Ripensare un artista complesso alla luce anche dei prima e dei dopo che la storia dell’arte pone per trovare una propria giustificazione. Si potrebbe dire, tuttavia, sulle orme di Foucault che non c’è mai un vero “prima”. Così il filosofo francese presenta la sua impostazione storica ne L’archeologia del sapere. «In che senso e secondo quali criteri si può affermare “questo è stato già detto”» , «l’archeologia non è alla ricerca di invenzioni», non ricerca il già detto da un punto di vista evolutivo: «passatempi simpatici, ma tardivi, da storici in pantaloncini corti» , conclude. Foucault ha ragione, è ormai noto. È anche vero che, come afferma egli stesso, all’interno di determinate serie culturali un prima e un dopo, seppur imprecisamente, è possibile determinare. È proprio in questa rete di rimandi che si immerge la figura di Panseca. Un discorso che si radica perfettamente in quell’atteggiamento di ricerca che dovrebbe caratterizzare il fare artistico ma che purtroppo – soprattutto oggi – sembra spesso nascondere fantasmi effimeri. È ciò che accade oggi di frequente quando si parla di arti digitali, di arti elettroniche, di arte e tecnologia, dove il secondo termine tende a prendere il sopravvento sul primo lasciando affascinati gli spettatori più per la natura tecnologica della singola opera che per la potenzialità estetica che tale natura può svelare. In tali ambiti, Panseca si pone proprio su di un piano differente: quello dell’“invenzione” continua, riportando alla luce la vera natura profonda di questa parola. Inventiònem, invéntus e cioè trovare investigando, scoprire ciò che è nascosto, mettere in luce ciò che rischia sempre di nascondersi: l’arte in quanto investigazione dei mezzi che mediano da sempre tra noi e ciò che chiamiamo “reale”, per farci capire qualcosa di più sui rapporti che legano questi tre fattori. In che senso Panseca è un “primo”, dunque? Basta dare un primo sguardo alle date. Già dal 1966 si interessa all’elettronica; dal 1973 inizia ad utilizzare materiali bio e foto degradabili utilizzando il computer; nel 1975 sperimenta la possibilità di utilizzare il satellite; nel 1976 entra nel sistema di comunicazione rompendo con i canoni classici espositivi facendo uscire una sua opera a tiratura limitata con il quotidiano “la Repubblica” (fattore che ripeterà anche con i quotidiani “Prova Radicale” e ABC”); e così si può continuare fino all’instaurazione della prima cattedra di computer painting all’Accademia di Belle Arti di Brera nel 1991; ai progetti non realizzati con il critico Pierre Restany dell’arte sui cartelloni pubblicitari. Date importanti, queste, ancora tutte da studiare e da inquadrare nella storia dell’arte e nelle storie delle media art. Date che ci parlano di un personaggio sempre ai confini tra gli ambiti definiti fra arte, scienza, comunicazione e società. È la risposta di un artista alle infinite domande che ci pone la nostra epoca. Un’epoca complessa difficile da inquadrare, protesa verso un’ansia di cambiamento tecnologico continuo: 7 qual è il nostro ruolo in questo sviluppo? Come trovare una poeticità, una profondità evocativa, in tale sviluppo capace di farci capire dove ci radichiamo oggi? Sono domande a metà tra l’estetico e il filosofico, tra lo scientifico e il tecnologico, tra il sociale e il mediale, che l’arte per prima dovrebbe affrontare. Ed è proprio ciò che da anni – da molti anni – fa Filippo Panseca, «Maestro del riciclaggio planetario della comunicazione», come lo definisce il grande critico d’arte Pierre Restany. Tutto ciò è ben visibile proprio in questa bella e complessa mostra curata da Ezio Pagano presso la Galleria del giovane e attivissimo Adalberto Catanzaro. È ben visibile, dunque, proprio nell’utilizzo e nella ricerca dei materiali, come il biodegradabile o le tele a trasferimento termico. Nell’utilizzo di materiali che hanno nella loro stessa struttura il proprio annullamento, la sparizione. Li vediamo qui nel Progetto per l’inserimento di una sfera rossa biodegradabile a Central Park New York e nella Proposta per l’inserimento di una sfera biodegradabile nella città di Milano, nel Progetto per l’inserimento di una sfera rossa biodegradabile nell’area antistante il Metropolitan Museum di New York tutti del 1974; o nell’Iridegradabile (2015, edizione unica per Galleria Adalberto Catanzaro). Oppure American Star “Madonna” o il Kennedy 30 years after entrambe su tela a trasferimento termico. Questo lavoro sui materiali non è una semplice sperimentazione o diletto estetico ma è una riflessione simbolica sul tempo o sugli universi temporali e spaziali che caratterizzano la nostra epoca. L’utilizzo del computer per creare immagini su questi materiali – che Panseca chiama digital painting – è particolarmente significativo. La nostra temporalità, e la nostra memoria, è oggi affidata 8 sempre più a supporti tecnologici fragili – prima il nastro magnetico, poi il cd e il dvd e oggi gli hard disk o al continuo cambiamento di tablet, smartphone, ecc. – di brevissima durata, 15/20 anni. Supporti che inevitabilmente spariranno, si annulleranno, cancellando il proprio contenuto: un vero e proprio trauma in termini psicoanalitici, come stanno mettendo in evidenza molti studiosi. Le opere di Panseca sono create volutamente attraverso materiali degradabili e quindi tendenti al loro annullamento. Sono immagini digitali che mettono in scena, mostrano allo spettatore, la loro essenza temporale: la loro inevitabile fragilità. Una fragilità che ribalta però i rapporti di forza insiti in quel “trauma” sopradescritto, creando un unicum nella storia delle arti digitali. Attraverso il “riciclaggio” della moltitudine di immagini dal mondo della comunicazione, e grazie al suo sguardo “ecologico”, Panseca ricuce questo trauma riproponendo in forma poetica la natura temporale della tecnologia. È la performance che l’opera ci mostra ogni volta che entriamo in contatto con essa. Le opere di Panseca – dai digital pinting all’uso del satellite alle sfere flottanti – sono delle performance, le quali, operando fuori da qualsiasi intenzionalità umana, ci risucchiano in una dimensione spazio-temporale nuova, nella quale possiamo solamente immergerci e fluire. Uno spazio-tempo essenza fragile della nostra epoca.

UNA NUOVA CATALISI PER UNA NUOVA ARTE “BIODINAMICA”. LE OPERE FOTOCATALITICHE DI FILIPPO PANSECA

ARTE & SCIENZA “Ricerca” e “sperimentazione” sono due termini in apparenza lontani dal mondo dell’arte. Due termini che suonano immediatamente come qualcosa di appartenenti all’ambito scientifico. Non a caso, infatti, è proprio dall’ambito scientifico che questi due termini nascono. Quella di sperimentazione, ad esempio, è un’accezione che comprende diversi campi teorici e applicativi e che pone le proprie radici intorno al 1600, epoca nel quale viene utilizzato e applicato come “pratica” da personaggi quali Galileo Galilei e Francis Bacon: nella pratica e nella teoria scientifica, sperimentale emerge come riferimento a ciò che è dato tramite esperimento. E non è un caso che proprio “esperimento” derivi a sua volta dal latino experiri e cioè esperire. Esperimento-esperienza-sperimentazione: questa è la triade che da quest’epoca non lascerà più non solo la scienza ma neanche il mondo dell’arte. Cosa accade, verrebbe da chiederci, quando la ricerca e la sperimentazione artistica incontrano quella scientifica? Cosa accade quando si intrecciano, si trovano e si toccano due entità afferenti all’ambito scientifico e tenute da molti anni distinte dalla tradizione umanistica? Ciò che accade è una vera e propria alchimia, una catalisi, fra due termini in apparenza – ma solo in apparenza – tenuti distinti: una modifica dello status quo, una modifica, per dirla in termini scientifici, delle velocità di reazione. MATERIA E MATERIALI È questo, ci sembra l’atteggiamento artistico di Filippo Panseca. Un nuovo atteggiamento che, come uno stregone nel suo laboratorio, si è sempre basato su di una ricerca continua con e sui materiali che mediano tra noi e il mondo. Un lavoro sui materiali che si è svolto senza pregiudizi di sorta e sempre in anticipo su molte tendenze che in seguito si affermeranno. Dall’opera satellitare del 1975 con Pierre Restany o dai primi digital painting del 1979; dal biodegradabile al fotocatalitico passando per l’uso dei mezzi di comunicazione, come l’opera offerta dal quotidiano La Repubblica nel 1976, alle Biennali, Triennali e Quadriennali più importanti, il segno distintivo di Panseca si è sempre incarnato in questo continuo processo di ricerca e di sperimentazione, di indagine sui materiali – e le tecnologie – al di là dei pregiudizi estetici, fuori e dentro gli ambiti consolidati. A metà tra il gioco, la pura sperimentazione e la vera e professionale ricerca scientifica, Panseca ha sempre riattivato la natura profonda di ciò che chiamiamo “invenzione”. Inventiònem, invéntus e cioè trovare investigando, scoprire ciò che è nascosto, mettere in luce ciò che rischia sempre di nascondersi: l’arte in quanto investigazione dei mezzi che mediano da sempre tra noi e ciò che chiamiamo “reale”, per farci capire qualcosa di più sui rapporti che legano questi tre fattori. L’ARTE FA MALE Catalisi, dunque. O, ancora di più, fotocatalisi. Questa l’ultima ricerca di Panseca. L’ultimo esempio nel quale arte e scienza si incontrano: l’esempio di una sempre meno inscindibilità tra arte & scienza-scienza & arte. Come accadde con la prima immagine realizzata dall’artista al computer, nel 1979, nel quale scoprì che dei ragazzi a San Francisco avevano costruito un esempio di ciò che all’epoca si chiamava elaboratore elettronico; e come accadde con l’opera satellitare quando scoprì il satellite presso la Rank 6 Xerox di Milano; e, ancora, come accadde per l’arte biodegradibile; e, infine, come è accaduto oggi – e passando per altri, molti, “come accadde” – alla scoperta delle opere biodinamiche fotocatalitiche: un sistema, che purifica l’aria riducendo le sostanze nocive. Ogni scoperta – diceva Heidegger – non è mai una vera scoperta ma un già trovato e, potremmo aggiungere, citando Einstein che “l’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo” essa rappresenta un trovabile e intuibile. Un intuibile che ci porta davanti a un’affermazione radicale: “l’arte fa male”. L’arte, infatti, in senso fisico, inquina. Quasi tutti i materiali utilizzati dall’arte classica inquinano l’ambiente. Quasi tutti i materiali, dunque, agiscono entrando in relazione con noi in modo drastico. Mentre noi ammiriamo un quadro e la sua simbologia, il quadro stesso agisce attivando con il nostro corpo e il nostro ambiente dei processi di inquinamento. Le Armonie digitali di Panseca realizzate al computer come un gioco di equilibrio tra i colori della natura in lento movimento, riportate sulla tela ricreano artificialmente con l’immaginazione ciò che della natura quotidianamente e lentamente nel tempo stiamo distruggendo. LA LUCE È la luce il principio vitale di questo processo e, a ben guardare, uno dei principi del lavoro di Panseca. È la luce l’attore che agisce sulle opere biodegradabili creando delle opere che mettono in mostra il loro dissolvimento, come nella Vittoria Alata installata nel 1981 sulla mano del Napoleone di Canova nel Cortile dell’Accademia di Brera. Ed è ancora la luce la materia dei video presentati all’importante mostra VideObelisco nel 1971: i fotoni dell’immagine elettronica del video o, più avanti, del computer e dei digital painting; come è ancora la luce, questa volta “sparata”, il soggetto delle opere satellitari; ed, infine, è ancora la luce ciò che interroga le opere catalitiche di Panseca: la modifica della velocità di una reazione chimica attraverso l’azione della luce. FOTOCATALISI PER UNA NUOVA ARTE E UNA NUOVA ECOLOGIA Arte & Ecologia: ecco l’ultima dicotomia che ci permette di pensare gli ultimi lavori dell’artista. Pensare all’arte non solo come rappresentante del bello, di un fare estetico staccato dalla società e dal suo ambiente, come molta arte contemporanea. Ma pensare all’arte come costruzione del presente: all’arte come bello, certo, ma anche come scienza e come sguardo e azione con e nella società, come ricerca e sperimentazione. Opere in via di realizzazione come le “Armonie digitali”, biodinamiche fotocatalitiche o le sfere fluttuanti, pensate per gli asili, gli ospedali o gli ambienti privati, o la “Sfera Foresta” capace di depurare l’aria di un ambiente, attivandosi automaticamente, come una foresta in presenza di elementi inquinanti per disattivarsi una volta raggiunto lo scopo . Opere che si svelano e ci mostrano una performance continua: ciò che vediamo – similmente alle opere biodegradibili o alle opere cinetiche – è la performance continua che la luce, l’opera e noi creiamo nel momento del nostro incontrarci. Una performance che ci porta verso una nuova idea di arte: dove l’arte diviene il principio motore di una nuova ecologia. Per concludere, ritornando a Sir Francis Bacon “In tutte le cose, e specialmente nelle più difficili, non ci si deve aspettare di seminare e mietere nel medesimo tempo, ma è necessaria una lenta preparazione, affinché esse maturino gradatamente”.